Tuesday, April 22, 2014

PART FOUR - le 8 Membra di Patanjali




Credo che uno dei momenti più brutti della mia vita è stato quando ho quasi ucciso mia sorella minore. Mi ricordo bene perché era inverno, faceva freddo ed eravamo davanti al camino, io in piedi. Durante i mesi freddi vivevamo in quei 4 metri quadrati davanti a quell'unica fonte di calore. Ci sono dodici anni di differenza tra me e lei e quando era piccola, le piaceva starmi appiccicata. 

Anche io mi divertivo. Quel giorno eravamo davanti allo specchio sopra il camino, io cantavo e saltavo su e giù. Lei era seduta a cavallo sulle mie spalle. Aveva allora circa un anno e mezzo, rideva tanto. Io tenevo i suoi piccoli polsi nelle mie mani, come le due estremità di una sciarpa. Improvvisamente c'è stato un imprevisto. Una mossa sbagliata tra un mio salto e il suo corpicino che di colpo si butta indietro e io perdo la presa delle sue manine. Il pavimento non aveva la moquette (strano per una casa inglese, ma eravamo un po' alla canna del gas!). Era di cemento. Ho sentito il contatto della sua testa con il pavimento. Un rumore che ancora oggi ho impresso nella mente e mi perseguita. 

La cosa incredibile è che quando mi sono girata e ho visto mia sorella stesa in terra che sembrava morta con gli occhi girati indietro, non sono svenuta. Non ho urlato come una matta. Sono entrata subito in azione. L'ho presa in braccio, ho provato a tenerla sveglia e ho chiamato un'ambulanza. Ero estremamente calma persino durante l'attesa del loro arrivo. Mi sentivo come se stessi guardando la scena di un film. Ho fatto semplicemente quello che dovevo fare. Punto. Niente lacrime, urla né panico. Quello è arrivato (purtroppo) quando lei era sistemata nell'ambulanza e mi sono ritrovata da sola. Ma nel momento della quasi-tragedia ero incredibilmente calma e operativa. Ho sentito altri che dicono che in un momento di grave pericolo, può succedere. Lo interpreto come un esempio del "testimone" che entra in scena. Improvvisamente il passato, il futuro e tutte le usuali menate sono spazzate via dall'emergenza del momento, lasciandomi libera di fare quello che dovevo con il mio "osservatore".

L'osservatore/il testimone è sempre calmo. Sempre. Per fortuna non dobbiamo uccidere un parente per farlo uscire dalla sua tana (mia sorella tra l'altro sta benissimo - adesso lavora in giro per il mondo ed è l'unica della famiglia accademicamente brillante e con una carriera di successo strepitoso, secondo me proprio grazie a quella botta).

Però quel giorno, con l'arrivo posticipato delle lacrime è arrivato anche il peggio: il senso di colpa. L'autocritica e la flagellazione. Il danno che ho fatto a mia sorella si è allargato a macchia d'olio inquinando me stessa con l'aggiunta del mio dolore emotivo (sei una stupida! Una deficiente, come hai potuto essere così distratta?!) al dolore fisico di lei.

Adesso oltre essere sorella sono anche mamma e imparo dalle mie figlie. La Mia Più Piccola quando sente un'ondata di emozione forte arrabbiata, triste, annoiata ce lo comunica. Nei modi di una bambina di sette anni. Spesso urlando, piangendo e a volte anche rotolandosi spudoratamente in terra. Poi si alza e sposta la sua attenzione al prossimo pensiero che le salta in mente, ad esempio iniziando discorsi del tipo: "perché una donna deve andare in ospedale per far uscire un bambino, ma non deve andare in ospedale per farlo entrare?" Di colpo per La Mia Più Piccola la tragedia è finita e la curiosità prende il sopravvento. Non si autoflagella per il suo comportamento poco elegante e ineducato.
E qui torniamo al discorso di Patanajli e alla sua tecnica per suscitare (neurologicamente) tracce/comportamenti alternativi. 

Da fare: chiamare in gioco "il testimone" (vedi Part two). Ma c'è anche il "non fare" che è altrettanto importante: il non giudicarci. È proprio la parte che giudica - dice Stephen Cope - che ci tiene intrappolati nel nostro solito sentiero buio e senza fine. Che ci fa prendere il solito percorso poco sano. L'autocritica ci tiene schiavi del nostro comportamento. È contro-producente. Potremmo chiederci nei momenti clou: "posso criticarmi un po' meno del solito dopo questa cavolata che ho appena fatto? Posso cessare l'autocritica un po' prima?".

Più che smettere di fumare, di stra-mangiare i dolci, di fare sesso in modo poco etico (ad esempio mentendo al nostro partner), di dire bugie ecc. smettere di darci le colpe è ancora più importante. Cominciamo qui e poi tutto il resto seguirà.
Secondo Patanjali, of course.

Questo articolo è stato pubblicato da Valentina Montisci a www.people.globalist.it 
Grazie a lei e ad Alice Turchini per la foto

Tuesday, April 8, 2014

PART THREE  di Le otto membra di Patanjali 
(pubblicato anche su People.globalist.it) 



Si dice "astenersi", e qui già la gente comincia a girare gli occhi al cielo. Perciò prima che smettiate di leggere vorrei sottolinearvi che l'astensione qui non è nel significato "religioso" della parola (tantomeno in quello politico). Non c'è nessuna dottrina o giudizio morale da Patanjali. Non ci sta dicendo (ad esempio) "Non mentire! Se menti vai all'inferno, vergognati e pentiti!" Ci sta dicendo che se siamo un po' più onesti, probabilmente vivremo meglio. Nessun giudizio, solo un consiglio pratico.

E questo è il punto: il (per esempio) mentire di meno, "di meno". Patanjali non dice "dì sempre la verità" o "fai sempre del bene agli altri"; non lo dice perché sa che sarebbe controproducente. Ha capito l'importanza dei piccoli passi, del valore delle ripetizioni nel tempo per "scrivere la nostra traccia alternativa nella neve (Vedi articolo Part Two). Sa bene che la forza di volontà non può far sì che di colpo ci svegliamo trasformati in una persona che fa sempre del bene e non mente mai. Invece ci svela che c'è qualcosa di miracoloso nel "fare un pochino di meno". Adesso è diventato il mio mantra prima di fare le mie solite cavolate. Perciò lo dico molto ma molto spesso. Questo è l'ingrediente speciale, perché ci fornisce il nesso tra l'astenersi e il chiamare il testimone/l'osservatore. Le due sono per me intrinsecamente correlate.

Appena mi dico "posso avere un pochino di meno di questo caffè/bicchiere di vino/persona/check del email?" voilà! Ecco il testimone. Ma come abbiamo detto prima, il nostro testimone porta sempre con sé la tranquillità. All'inizio, e in base a quanto siamo "agitati", potrebbe arrivarci solo per qualche breve secondo ma poi man mano che pratichiamo, dura un po' di più, o torna più spesso. Come un ospite a casa nostra, facciamolo sentire ben voluto, accolto, prestiamogli attenzione e interesse.

Un esercizio per svegliare il testimone. Quando siamo sdariati sul nostro tappetino yoga (o in letto per quelli più stile Lebowski) seguiamo mentalmente il nostro respiro. Appena slittiamo con l'attenzione via dal respiro proviamo ad accorgercene. E ritorniamo di nuovo al nostro respiro. Fino alla volta successiva quando il "cucciolo scatenato" che è il nostro bagaglio mentale, prova di nuovo a saltare fuori di "qui". Noi semplicemente notiamo questa dinamica. Chi è a notarlo? Di certo non il cucciolo. È come se qualcuno stesso guardandoci da fuori. Chi? Il famoso testimone. Se riusciamo a chiamarlo sul tappetino, riusciremo, un po' alla volta, a farlo in situazioni più stressanti: a lavoro, alle poste, in auto, con i nostri genitori, con i nostri figli (quando avremo praticato un bel po'!).

Diane Rizzoli nel suo bel libro "Svegliati a ciò che fai!" parla di una trapezista sulla sua altalena che prendendo il ritmo và sempre più in alto, più in alto, un po' alla volta più in alto. Poi lascia la presa. Rimane per un attimo come sospesa in aria. Galleggiando. C'è un momento di "stillness", di sospensione. Dianne chiama questa pausa il "punto morto". Un punto di enorme potenza. Lei dice che ci ritroviamo spesso in preda delle oscillazioni della vita, e tendiamo subito ad aggrapparci al nostro solito comportamento, la nostra "altalena" abituale che ci fa sentire sicuri. Sicuri, amati, fuori pericolo... Lei suggerisce che in quel "momento morto" abbiamo invece la possibillità di cambiare direzione, di pensarci e di tentare qualcosa di diverso. È questa sospensione che permette al testimone di entrare in scena. Lui/lei è il ponte tra un pensiero e l'azione che segue. Forse quella nuova. Utile!



Credo che se riusciamo a mettere in azione solo questa membra degli 8 di Patanjali (i Yama) cominciamo a vivere in pieno la nostra potenza.

Ringrazio Antonio Cipriani per le foto e Valentina Montisci per tutto il resto!