Thursday, March 28, 2013

VIVERE CON IL DISAGIO PART TWO (cont. da settimana scorsa)


Foto di Antonio Cipriani

Domenica ho portato la mia bambina alla fiera dei fumetti. Le ho fatto dipingere il viso da farfalla, ha fatto "rock-climbing" con l'imbragatura, ha parlato con una cosplay teenager vestita da vampiro che era coperta di tatuaggi con lenti a contatto rosse (almeno spero), ha tentato di decorare una torta con la glassa e ha provato ad andare con i roller (è cascata, ha picchiato la testa, si è tirata su e ha fatto un altro giro prima di cadere di nuovo e così all'infinito. È tornata a casa tutta un livido). A casa poi con Youtube ha fatto una lezione di chitarra. A scuola ha un'amica cinese, invece di fare i compiti si è messa lì a imparare i numeri cinesi che Xling le aveva dato da copiare e imparare. Cioè in un giorno ha provato a fare più cose di quelle che ho fatto io negli ultimi sei anni.

Ho due domande.
1. Quando era l'ultima volta che hai provato a imparare qualcosa di nuovo?

Se è stato tanto tempo fa, come mai? Ho l'idea che siamo un po' sedotti da quello che conosciamo. Sempre gli stessi amici (niente vampiri con gli occhi rossi per me, almeno da quello che so io), stessi posti, stessi "passatempi". È come essere "addicted" alla comodità (e al piacere). Un po' come con i roller, da adulti non accettiamo di cadere. È come se il farsi male fosse tossico. Stiamo alla larga. Lei invece si butta. Non perché è particolarmente coraggiosa, ma perché la novità (e anche il sentirsi in difficoltà) è nella norma (pensa a quante cose nuove deve imparare solo a scuola). Io sento come se stessi regredendo mentre mia figlia cresce, sia socialmente che intellettualmente.

Grazie al fatto che le mie figlie hanno una tiranna come mamma, hanno imparato a vivere con lo sconforto molto bene. Dico che la cena è pronta e devono spegnere la tv. Quando dico di lavarsi i denti, mica hanno voglia. Quando dico loro di mangiare le carote, di usare le posate e non le mani, di mettersi le calze, di andare a dormire, idem. Vivono continuamente situazioni di "scocciatura". Ma appena sentono rabbia o disagio non escono sul balcone a fumare una sigaretta, o accendono il computer per controllare Facebook, non mettono le mani nel barattolo dei biscotti o si sfogano con il gelato. Fanno una cosa pià sana: si lamentano (ma di brutto, credetemi), e vanno avanti con il disagio e il task del momento.

Quando evitiamo il nuovo o il disagio, quando rimaniamo fissi nella nostra comfort zone, è come premere il tasto "pausa" della vita. Rimaniamo bloccati.
Credo che basterebbe riabituarsi allo sconforto.
La prossima volta che sentiamo il bisogno di scappare dallo sconforto del momento, proviamo questa tattica di "posticipazione" in 3 mosse: esempio: abbiamo litigato con il capo e vogliamo fumare una sigaretta per dirottare la rabbia. La prima volta contando "uno" lasciamo andare l'impulso, la seconda volta che ci viene, contando "due" lasciamo andare l'impulso. E al terzo accendiamola e godiamola pure. Sapendo che al terzo possiamo cadere nella tentazione ci dà la forza per resistere un pochino di più. In questo modo man mano ci abituiamo allo sconforto e così magari possiamo aspettare sempre di più finché, come per i bambini, vivere con il disagio diventa normale. Perché È normale. O dovrebbe diventarlo. Stessa cosa quando dobbiamo parlare con una persona nuova, o provare un'esperienza diversa dalle solite. Ci buttiamo, proviamo una, due volte e al limite alla terza ci rinunciamo. Qualcuno (non ricordo chi) ha detto "tutto è difficile prima che diventi facile." Persino la difficoltà.

L'ultima domanda:
2. pensa all'ultima esperienza più ricca e soddisfacente che hai fatto negli ultimi due anni. Cos'era? Scommetto che era quando hai provato qualcosa di nuovo.

Per chi non ha provato yoga, potrebbe essere lo spunto giusto per sperimentare "il nuovo" e spero senza non troppo sconforto. Vi aspetto.



Questo articolo è stato pubblicato nella rubrica settimanale  del sito  globalist.it gestito da Valentina Montisci.


Tuesday, March 19, 2013

SEI PASSI PER GESTIRE LA VERGOGNA E IL DISAGIO

foto di Antonio Cipriani

Recentemente mi ero trovata a cena con un gruppo di persone decisamente "sopra la mia portata", di un ceto sociale superiore per non parlare dell'intelletto, cultura, e professione.

Perciò mi ero improvvisamente trovata pesantamente fuori dal mio "comfort zone" sia geograficamente (fuori dalla zona Isola!) sia socialmente. 

Ero contenta di essere lì comunque , un po' in soggestione ma pensando di cavarmela. Ho avuto il coraggio durante il pasto di far sentire la mia voce un paio di volte:  grave errore. Ho provato una battuta che ha sfondato come un sasso buttato in un pozzo buio e profondo. La seconda volta invece sono riuscita (probabilmente, ma non appositamente) a offendere uno dei presenti. Ero mortificata.

Sono rientrata a casa strappandomi i capelli dalla testa, rivivendo la scena con una pesantezza al cuore sempre più forte. 
Mi è venuto allora in mente di chiamare uno del gruppo per dirgli 
"Lo so, lo so - ho fatto una figura di cacca! Scusami, la mia era solo una battuta non volevo…" 
Poi mi sono fermata. Mi è venuta in mente una citazione di Francis of Assisi: "seek not to make oneself understood, but to understand." cioè "Cerca non di farti capire, ma di capire". E mi sono detta "Amen. Quello che è successo è successo. Proviamo a usare l'energia per capire, invece che per scavarsi una fossa ancora più profonda.

Quando ci sentiamo in forte disagio e stress proviamo a:
1. notare perchè ci sentiamo a disagio -  In questo caso: avevo detto qualcosa di estremamente stupido davanti a gente estremamente smart.
2. Capire cosa vogliamo ottenenere - di fare una bella figura. Di far sì di essere accettata da gente che vedevo sopra la mia portata.
3. Rendersi conto che è un sogno, idea o pretesa che non è reale. È una finzione mentale - qualcosa che ho inventato nella mia testa perciò posso lasciarla semplicemente andare - la mia idea era che ero inferiore, la pretesa che loro mi accetassero.
4. Rendersi conto che questa "auto-flagellazione mentale" ...fa male.  - la fallita pretesa che gli altri si comportassero con me come volevo io, mi faceva soffrire.
5. Capendolo, e solo all'ora, possiamo lasciarlo andare - Volevo convincerli a una valutazione positiva di me, che sono intelligente, simpatica e colta, ma con un pizzico di auto-ascolto capisco che è ridicolo. E voilà! L'inizio del famoso "lasciar andare". Improvvisamente riesco a ridere di me stessa invece di piangere.
6. Parlarne con un buon amico - la condivisione aiuta a ridimensionare e diluire il dolore. Parlare dei nostri sbagli è un medicinale. Solo con la persona giusta - non tutti sono così fortunati di avere una persona alla quale possiamo dire tutto, anche le cose più brutte - se l'abbiamo teniamocela stretta, è preziosa.
(Per altre considerazioni su questo discorso consiglio vivamente "The Gifts of Imperfection" di Brenè Brown.)

Andare fuori dalla nostra "comfort zone" ci fa imparare tante tante cose, ci fa provare un senso di disagio e impariamo proprio grazie questo.

Per quanto riguarda direttamente lo yoga - è lo stesso discorso. Anche sul tappetino proviamo a non ripetere sempre le asana conosciute - o quelle che ci vengono meglio, ma mettiamoci un pò alla prova. Sia che "falliamo" miseramente (impossibile fallire nello yoga!)  sia che ci riesca bene - è sempre comunque utile. Permette un'evoluzione. Un mio amico una volta mi ha detto "non c'è cambiamento senza disagio, e non c'è evoluzione senza cambiamento". Mi sa che ha ragione. Sigh.

Questo post è stato pubblicato nella rubrica settimanale "Tess's Yoga Tip" sul sito www.people.globalist.it gestito da Valentina Montisci

Sunday, March 10, 2013

EINSTEIN E GHANDI HANNO SBAGLIATO


Photo di Antonio Cipriani

Una delle cose che non mi piace molto del mondo yoghico è questa insistenza (e anche io un pò di tempo fa ero colpevole) sul pensiero positivo e "self improvement".  E non solo nel mondo yoghico. Persino Ghandi ha detto "Siate il cambiamento che vorreste vedere nel mondo" (cioè cambiarsi in meglio per arrivare in un posto "migliore", suppongo). Einstein ha detto "Ci sono due modi di vivere la tua vita. Una è pensare che niente è un miracolo. L'altra è pensare che ogni cosa è un miracolo." Belle parole... che implicano che possiamo scegliere di cambiare e di vedere le cose in modo più allegro.

Ma se fosse vero che possiamo scegliere la felicità, come mai non stiamo girando tutti con un bel sorriso stampato in faccia? Come mai gli antidepressivi si vendono meglio dello gnocco fritto? Se la felicità si può scegliere, allora siamo una razza molto molto stupida - perchè da quello che vedo io, la maggior parte ha scelto la "normalità" ...e un parte di essere  tristi. Non c'è tutta questa gente piena di gioia in giro. Come mai se è semplicemente una questione di "scelta"?! 

Immaginare che possiamo cambiare noi stessi in esseri migliori con la sola convinzione mentale, è in se negativo: "we are setting ourselves up for failure" - cioè ci stiamo impostando per il fallimento. E dopo questo nostro impegno per trasformarci in esseri felici con la sola forza del pensiero, ci troviamo tristi o "normali"  come prima. E non è finita: visto che abbiamo fallito miseramente nella nostra "Missione Felicità ", ci sentiamo anche in colpa per i risultati meno che sufficenti, che ci fa scattare l'auto-critica ("ecco sono un fallimento!") e ci troviamo in lotta con noi stessi. E così via al panino con Prozac. 

Per me lo yoga non ha che fare con "self improvement" né con il trovare la felicità (come si saprà se seguite i miei corsi;-)  ma con il conoscersi. Quando abbiamo guardato bene chi siamo, che può essere grazie allo yoga, la meditazione, camminate nella natura, l'amante, jogging, l'analista, lavorare a maglia, il suonare, il cantare, il dipingere, il golf - ci sono infiniti modi per arrivarci -  possiamo cominciare a capirci, e quando capiamo possiamo trovare qualcosa che è mille volte meglio della felicità, che è "l'accettazione". 
Anche se io credo che lo yoga post-pratica può portarci ad uno stato di "gioia" non è grazie allo sforzo mentale, ma grazie ad un lasciar andare, due cose decisamente  diverse tra di loro.

L'ultimo libro della scrittrice Jeanette Winterson si intitola "Why be happy when you can be normal?". Concordo pienamente.

Questo post è stato pubblicato sulla rubrica settimanale di www.people.globalist.it